Lavori in apiario nel mese di Gennaio 2010
Il nuovo anno per gli apicoltori non si presenta proprio bene: sentendo le informazioni che arrivano dalle varie zone sembra di essere di fronte a un bollettino di guerra. Nel Bellunese le preoccupazioni dell’Associazione Apidolomiti sono molto inquietanti per quanto riguarda la moria delle famiglie e della sopravvivenza degli stessi apicoltori, senza contare le arnie invernate su sette o otto telaini che a tutt’oggi si sono ridotte a due o tre telaini.
In quella zona molto si è lavorato per ottenere il marchio DOP, e molto si deve ai dirigenti dell’Associazione che, oltre ad essersi prodigati con un carico di lavoro non indifferente, hanno saputo incanalare le loro richieste con insistenza e costanza, certi che il loro prodotto era degno di tale riconoscimento.
Il Presidente dott. Ettore Libanora esprime il suo rammarico dicendo che gli apicoltori non hanno potuto godersi questo loro merito per l’incalzare di queste morie che se continueranno metteranno a dura prova non solo la produzione e il marchio ma l’intera ecologia della montagna.
Sulla locandina del Convegno di Apicoltura degli Esperti Apistici dell’AlpeAdria del 05 Dicembre 2009 (dove mi sono autoinvitato per sentir parlare di apicoltura) nel frontespizio riportava queste frasi: “Fare apicoltura sta diventando un’impresa sempre più difficile. Non bastano più dedizione, conoscenza e passione. Troppo spesso ci si sente quasi impotenti. In questi giorni, frequentemente aprendo un alveare lo troviamo vuoto …senza api… “eppure era una famiglia forte fino a poco tempo prima!” “eppure abbiamo fatto tutto quanto possibile e con scrupolosità” Proviamo a capire un po’ di più dialogando con gli esperti al fine di salvare il nostro grande patrimonio.”All’entrata del Convegno ho incontrato molti amici che mi hanno confidato il numero delle famiglie morte fino a quel momento; io ho confidato loro le mie perdite e posso dire che se facessi una percentuale di quello che ho percepito otterrei dei valori certamente preoccupanti, non solo riguardo le famiglie morte ma anche riguardo quelle che rimanendo attive non saranno certamente forti e in buona salute.
In una grande sala, gremita di molta gente, il Presidente del Consorzio Apicoltori di Udine Sandro Baldo ha introdotto i lavori con parole molte riflessive parlando del momento critico che sta attraversando il settore. Ha fatto notare che la moria di famiglie già da adesso è del valore del 30-40% e che se l’inverno sarà freddo e rigido le perdite potranno salire anche al 60-70%.
Ha dato poi la parola al dott. Franco Nazzi del Dipartimento di Biologia e protezione delle Piante dell’Università di Udine il quale come ricercatore fa parte del gruppo che opera nel progetto APENET.
I progetto è stato voluto dal Ministero dell’Agricoltura e coinvolge varie Università per la ricerca e la sperimentazione ed altri enti per la verifica del territorio con il monitoraggio dell’ambiente.
Il dott. Nazzi ha illustrato i vari studi svolti sulla varroa. Il gruppo si è chiesto quali danni provoca la varroa nell’ape oltre ad essere vettore di infezioni per tutti i componenti della famiglia. Il gruppo di ricerca si è organizzato predisponendo due apiari che avessero le stesse caratteristiche come forza delle famiglie e situazione ambientale, uno usato per la sperimentazione e l’altro come testimone del primo.
Hanno riprodotto delle varroe e le hanno introdotte in una larva che alloggiava in un alveolo di vetro, tenendo sotto controllo lo svilupparsi dell’insetto con lo svilupparsi dell’acaro.
La varroa all’interno della celletta ha prodotto un primo uovo, che diventerà sicuramente varroa, mentre il secondo sarà un uovo maschile (dopo aver fecondato le sorelle e dopo qualche giorno dalla schiusa della cella morirà). La varroa madre ha continuato a deporre dalle tre alle sette uova delle quali solo la seconda arriverà a maturazione mentre le altre non hanno grande possibilità di sopravvivere. In ogni caso, il dott. Nazzi, ha affermato che in questo modo ogni mese la varroa si raddoppia di numero all’interno della famiglia.
Seguendo la vita dell’alveare hanno potuto vedere che se un’ape sana vive 28 giorni una che è stata punta una sola volta dalla varroa ne vive 26, mentre quella punta da tre varroe ne vive solo 15, se qualcuno fa un po’ di conti si rende conto che è facile arrivare al collasso della famiglia in luglio o agosto se già a febbraio all’interno della famiglia ne vivono un centinaio.
Altra cosa importante che hanno verificato è la differenza di peso che esiste fra un’ape sana e un’ape punta dalla varroa; l’ape sana pesa molto di più di quella ammalata. Nella ricerca di questa causa si sono accorti che la cuticola dell’ape ammalata è più sottile di quella in buona salute, anche in questo caso il grafico dimostrava una longevità molto minore dell’ape con la cuticola fragile.
Se essiccando api sane e api malate i loro pesi erano uguali, vuol dire che quella malata nel suo arco di vita eliminava molti più liquidi, attraverso una cuticola non più protettiva, rispetto a quelli che avrebbe eliminato se fosse stata sana. Anche in questo caso si aprono una serie di interrogativi: conviene fare ricerca per intervenire con una alimentazione in grado di ricostruire la cuticola all’ape o ricercare altri fattori che possano aprire strade nuove?
I partecipanti hanno chiesto alla Presidenza che fine faranno tutti questi studi dato che il progetto si concluderà l’anno prossimo. Nel frattempo questi interrogativi rimarranno ancora aperti?
Non sarebbe opportuno che il Ministero prendesse delle posizioni in merito, assicurando ai ricercatori delle sovvenzioni fino alla fine delle sperimentazioni? In questo modo si avrebbe, in maniera positiva o negativa un lavoro finito.
Ha preso poi la parola il dott. Giulio Loglio referente per l’apicoltura della provincia di Bergamo. Alla fine di una interessante esposizione sulla buona pratica di manipolazione del miele, comprese le sale di smielatura e l’uso dei vari farmaci veterinari in apicoltura ha dato qualche dato sulla moria di api nella sua provincia, indicando come valore una perdita di famiglie già morte per varroa del 30 al 40% .
Il dott. Giorgio Della Vedova del Laboratorio Apistico Regionale dell’Università di Udine ha relazionato nelle varie possibilità di operare per salvare il patrimonio apistico che rimane.
Fra le molte cose dette la più importante è stata quella che ogni apicoltore, nella stagione primaverile, deve farsi i propri nuclei, non tanto per aver maggiori famiglie ma per fare la rimonta l’anno successivo delle mortalità a cui andrà in contro. Non ha nascosto le difficoltà che si possono incontrare nel primo anno di prova; certamente negli anni successivi sarà tutto più semplice, questa è certamente la pratica che ci potrà salvare dalla varroa anche perché i nuclei formati con telaini di miele coperti d’api con un solo trattamento di acido ossalico gocciolato si ripuliscono in maniera totale dall’acaro. In seguito potremmo inserire o una cella di regina nascente o una gabbietta con regina feconda ed il nucleo è già formato, certamente sano e pronto a svilupparsi per l’ anno successivo senza particolari attenzioni da parte dell’apicoltore.
Negli anni scorsi molti amici hanno seguito questo metodo, da me molto caldeggiato e proposto (vorrei dire) quasi con insistenza. Devo dedurre che queste persone, compreso il sottoscritto, hanno avuto certamente delle morie ma senza molte preoccupazioni in quanto i loro apiari, nonostante le perdite, sono forse più numerosi dell’anno scorso e molto probabilmente potranno regalare qualche famiglia a chi le ha perse tutte.
Queste sono cose difficili da far capire alla maggioranza degli apicoltori, molti pensano che siano pratiche troppo difficili, laboriose, impegnative, invece sono cose semplici che riempiono di soddisfazione.
Molte volte penso che le indicazioni di qualche suggeritore, come il sottoscritto, ma anche quelle di esperti e studiosi apistici date agli apicoltori non facciano breccia, non facciano riflette ma vengano scartate ancora prima di conoscerle. Certamente sarà che siamo a cavallo fra due culture: quella vecchia nella quale si diceva che alle api nulla si doveva fare perché provvedevano a tutto da sole, quando veniva l’inverno la cosa migliore era di lasciarle riposare ed aspettare a marzo che uscissero dall’arnia, solo allora se non si vedeva movimento dovevamo verificare cos’era avvenuto. La cultura nuova che affronta tutte le calamità che sono intervenute in questi anni come la varroa, il nosema, le virosi e che a queste, nel bene o nel male, ha sempre cercato di proporre un rimedio usando la ricerca e la sperimentazione. Nei primi tempi si sono affrontate le malattie con farmaci, anche industriali, molto forti ma in seguito si è cercato di finalizzare i prodotti che fossero mirati solo per la varroa e non per danneggiare l’ape.
Tutto questo sembra che abbia perduto efficacia come hanno perduto efficacia quei farmaci che hanno fatto insorgere delle farmaco resistenze nell’acaro varroa. Si potrebbe usare un insieme di sostanze nella speranza che tutta la loro potenza messa assieme riesca a far morire parte della varroa presente, visto che non riusciamo a debellarla in totale. Rimane il dubbio che se una varroa riesce a vivere poi dovremo studiare dei farmaci sempre più forti rischiando che oltre a sopprimere l’acaro sopprimeremmo anche le api.
Per mio conto ritornerei a pratiche molto più semplici come quelle descritte prima, nell’attesa che i ricercatori siano in grado di rilevare dei punti deboli nella vita e nella fase di riproduzione dell’acaro, tenendo sempre alta l’attenzione sui nostri alveari e premendo sulle istituzioni per sovvenzionare sempre più la ricerca.
Un saluto e al prossimo mese.
Paolo Franchin ... |